martedì 9 dicembre 2014

La casa è vuota

"La casa è vuota" è il titolo del primo capitolo di uno dei libri più amati della mia infanzia, Il giardino segreto di Frances Hodgson Burnett.
Ieri è stata la nostra casa a vuotarsi, o meglio, il nostro ex appartamento, visto che da questa mattina non ci abitiamo più. 
Quando abbiamo pianificato il nostro trasloco in Australia abbiamo subito pensato di portare con noi solo i libri, la biancheria per la casa e poche altre cose. Niente piatti, bicchieri, niente divano o tavoli, niente letto. E' stato facile dirlo, una soluzione semplice e razionale. Il motivo è che non erano mobili comprati per tenerli per anni, ma solo economiche soluzioni di fortuna durante la nostra permanenza in questo paese. Il letto, per dirne una, era durissimo, non c'erano reti nè doghe, il materasso poggiava su una superficie legnosa e dura. I piatti, per dirne un'altra, erano di plastica rigida, vecchi e rigati. Niente insomma che valesse la pena di essere portato a caro prezzo in Australia a Gennaio.

Così ieri pomeriggio è venuta una ditta specializzata nel ripulire le case. Take my junk, si chiama, tu telefoni e loro vengono a portarsi via tutte le cose che tu non vuoi più, incluse le scatole aperte di detersivo, inclusi i pantaloni rotti, incluso il pacco iniziato della farina.
Sono arrivati e con metodica precisione hanno portato via tutto, chiuso in grossi sacchi. Hanno portato via la mia amata lavatrice, il divano pieno di macchie. Si sono presi la pentola dove ero solita fare il ripieno per il tacchino del Thanksgiving, il nostro letto e tutto il resto.
E io sono rimasta a guardarli, con un groppo in gola e tante lacrime negli occhi. 

Non è per gli oggetti in sè, perchè ovviamente le cose si possono ricomprare. E' per i ricordi. E' per tutte le scaglie di vita che sono rimaste attaccate a quelle suppellettili, le emozioni, i sogni. 
E' per la trepidazione con cui ho acceso per la prima volta quella lavatrice, dopo quattro mesi che lavavo i panni a mano, è per la soddisfazione della prima cena importante fatta su quei tavoli, è per la gioia di aver imparato ad usare "il ferro da stiro di Barbie" come ho sempre chiamato quel ferro mezzo scassato dove non c'era modo di aggiungere l'acqua ( e che funzionava più o meno quanto un ferro da stiro giocattolo che avevo da bambina).
Ho pianto, ho pianto tantissimo a veder portare via le nostre cose. Alcuni oggetti erano legati a ricordi così intensi che mi sembrava impossibile che gli uomini della ditta non se ne accorgessero. 
Voglio dire, quelli non sono dei bicchieri. Quelli sono i bicchieri, i primi che ho comprato insieme a mio marito, per la nostra disastrata casa in mezzo al deserto. Sono gli economicissimi bicchieri del supermercato, che abbiamo rotto uno ad uno, ma che sono stati sulla tavola per tantissime cene con gli amici.

Lo so, lo so. Ci saranno altri bicchieri, un'altra lavatrice, un'altra casa da arredare e da riempire di nuovi ricordi. Ne sono cosciente. Ma questa angoscia non è un sentimento razionale

Mentre la casa lentamente si svuotava, ogni rumore iniziava a rimbombare. Alla fine siamo rimasti solo io e mio marito seduti sul pavimento di una casa vuota, mentre le nostre voci echeggiavano nelle stanze. Noi due e un materassino gonfiabile.
E' stato tutto incredibilmente simmetrico. Quando siamo arrivati in quell'appartamento, a Gennaio, non c'era nulla, tutte le stanze erano vuote. Poichè tutte le nostre cose erano ancora nella casa in mezzo al deserto e non sapevamo esattamente quando sarebbe stato possibile portarle lì, abbiamo comprato un materassino gonfiabile, per avere almeno il posto dove dormire. Abbiamo dormito sul materassino per un po', mangiando il cibo pronto del supermercato.
Poi sono arrivate le nostre cose, l'appartamento si è riempito dei nostri mobili, delle nostre pentole, delle nostre voci, delle nostre vite. 
E ora, dopo quasi un anno, si è svuotato con la stessa simmetrica precisione. Siamo rimasti noi due, il materassino e il cibo del supermercato.

Questa mattina, guardando fuori dalla finestra il panorama che mi era ormai familiare, mi sono resa conto che quella non era più la nostra casa. Era un appartamento vuoto, che attendeva di essere riempito con gli oggetti e le vite di altre persone.
L'ultima cosa che ho visto, prima che la porta si chiudesse alle mie spalle, è stato un tratto di pavimento illuminato dal sole, là dove prima c'era il nostro divano. 
Poi la porta si è chiusa.

Ora siamo in hotel, dove resteremo alcuni giorni prima di tornare in Italia per le feste.
A Gennaio comincerà la nostra avventura australiana. 

venerdì 28 novembre 2014

Il mio Thanksgiving 3.0

Premessa

Qualche mese fa, il nostro scalognatissimo forno di bassa qualità ha iniziato a darci di nuovo problemi: il rivestimento interno di vernice si staccava di nuovo a pezzetti e produceva uno strano odore durante la cottura. Oltre a questo, le piastre del piano cottura sovrastante avevano iniziato a fare fumo. 
Abbiamo chiamato l'assistenza, costituita come al solito da tecnici poco esperti.
Premetto che non ho assolutamente nulla contro di loro, ma come tutte le volte in cui in questo paese mi è capitato di avere a che fare con un tecnico (vedi anche le mie esperienze con l'idraulico, l'uomo della lavatrice e il tecnico del condizionamento) ho avuto dei problemi. Il fatto è che parliamo di persone che nel 99% dei casi provengono da un paese del terzo mondo che si "improvvisano" idraulici, elettricisti e quant'altro ma senza avere davvero le conoscenze teoriche necessarie a svolgere la professione. E non c'è niente da fare: assumere persone provenienti dal terzo mondo senza insegnargli prima a lavorare secondo standard qualitativi adeguati significa ricreare il terzo mondo da un'altra parte. Ripeto, non è colpa loro, ma la mancanza di professionalità è indubbia.

I tecnici arrivano, sono gli stessi dell'altra volta. Guardano il forno.
- Qual è il problema madam? si accende no?
Gli spiego che sì, si accende, ma la vernice si stacca e cade sui cibi, per non  parlare del fumo e dello strano odorino. Loro mi guardano come se fossi pazza, è evidente che per loro questi non sono problemi.
Gli dico che nonostante il forno sia stato riverniciato il rivestimento interno si stacca di nuovo.
Mi guardano.
- No madam, non è vero. Magari è lei che non pulisce bene.
Stiamo scherzando? possono dirmi tutto, ma non che il forno non è pulito. Splende. Gli chiedo di indicarmi dov'è sporco e gli faccio vedere un pezzo di vernice che si staccata.
Loro sono in difficoltà. Infine scorgono sulla griglia una piccola macchietta (mezzo cm) di ruggine.
- E' qui, madam, vede? la ruggine si scioglie e si deposita sul fondo del forno, creando queste piccole cose nere che lei ci ha fatto vedere.
Penso di avere gli occhi fuori dalle orbite, come nemmeno una lumaca potrebbe fare. La ruggine si scioglie e crea pezzetti di vernice nera???
Mi è chiaro che non sono in grado o non vogliono aiutarmi. Con mio marito decidiamo di comune accordo di non utilizzare più nè forno nè fornelli e compriamo una piccola piastra elettrica per poter continuare a cucinare.

Con l'avvicinarsi del Thanksgiving, dove l'uso del forno è fondamentale per la cottura del tacchino, abbiamo deciso di chiedere all'amica di un'amica di poter utilizzare il suo forno. 
Io abito in un complesso formato da due grattacieli e da un centro commerciale al piano terra, che unisce le basi dei due edifici e il cui attraversamento costituisce il modo più rapido per andare da un grattacielo all'altro. Scontato dirlo, noi abitiamo in un grattacielo e questa ragazza nell'altro. 
In altre parole, questo significava che per cuocere il tacchino avrei dovuto attraversare il centro commerciale del piano terra col tacchino (6,5 kg) in braccio.
Ma io sono una donna dalle mille risorse (ahaha) per cui mi ero organizzata.

Il centro commerciale a piano terra ospita un supermercato di una nota catena britannica, dove abitualmente faccio la spesa. Ai residenti nelle due torri è permesso portare la spesa fino al proprio appartamento col carrello.

Il mio Thanksgiving

Ore 7
Vado a fare la spesa e porto il carrello del supermercato fino al mio appartamento. Controllo quindi che nessuno dei vicini stia uscendo di casa proprio in quel momento e sequestro il carrello, portandolo dentro all'appartamento e sistemandolo nel corridoio.

Ore 10
Con la mia piccola piastra elettrica ho cotto le patate per le mashed potatoes e i fagiolini per la green bean casserole. E basta, perchè in effetti l'abbiamo pagata l'equivalente di 10 euro, quindi non funziona granchè bene. 

Ore 11.30
Vado a prendere la tovaglia bianca di fiandra per apparecchiare il lungo tavolo. Apro un cassetto, ne apro un altro. Frugo negli armadi, cerco tra le lenzuola. Sparita. Dove accidenti l'ho messa? E' tardi e non tempo, quindi prendo un lenzuolo bianco, lo piego a metà, ci sistemo sopra il centrotavola che sto ricamando da mesi in vista del Ringraziamento e dispongo piatti, posate, bicchieri e tovaglioli.

Ore 12
Ho fatto il brodo e il ripieno per il tacchino. La bestia ha finito di scongelarsi per cui la sgrasso, la pulisco, la salo per bene, la ungo d'olio e la farcisco, legandogli poi le zampone con lo spago da cucina. 
Preparo il carrello, stipando dentro i sacchetti del supermercato tutto quello che devo cuocere nell'altro appartamento: il tacchino, la pentola di brodo necessario per bagnarlo in cottura, il ripieno avanzato che deve gratinare, le pannocchie e il necessario per preparare un chilo di macaroni and cheese ( ricetta americana, of course). 
Ad un'occhiata superficiale sembra che abbia appena fatto la spesa e mi illudo di non dare nell'occhio.

Ore 13
Esco di casa col carrello pieno di sacchetti. Le prossime ore le passerò a cucinare, per cui nel vestirmi ho dato la precedenza alla comodità. Ho i capelli spettinati e legati malamente, indosso una vecchia T-shirt grigia di mio marito, una gonna nera sdrucita lunga fino ai piedi e, per completare il quadro da nonna Abelarda, ho un paio di pantofole col buco. Tanto, mi dico, a quest'ora non c'è mai molta gente al centro commerciale!!

Ore 13.05
Scopro che oggi nel centro commerciale c'è una specie di festival, con tantissimi stand e, soprattutto, tantissima gente. Mi raggomitolo su me stessa e attraverso i corridoi più velocemente che posso. 
Certo che almeno potevo mettermi un paio di scarpe senza buchi. Perdindirindina.

Ore 14.10
Arrivo nell'altro appartamento e scopro che S, l'amica della nostra amica, è una donna super tecnologica: mega frigorifero dove si può decidere la temperatura dei vari ripiani, microonde ultima generazione, non plus ultra in fatto di lavastoviglie e lavatrice e soprattutto, piano cottura ad induzione con sottostante forno di alta tecnologia, che va programmato tramite display. C'è un programma di cottura per ogni cosa, nonchè la possibilità di cuocere più cose diverse nello stesso tempo, programmando una cottura differente per ogni piano. Mi immergo nel manuale di istruzioni mentre chiacchiero con la mamma di S, appena arrivata dal Canada. 
Programmo il forno e mi ci siedo davanti, nell'ansia di aver scelto il programma sbagliato che porterà il mio tacchino alla carbonizzazione. 

Ore 18.10
E' tutto pronto, la bestia è cotta e dorata (per fortuna ho programmato bene il forno!), la teglia di macaroni and cheese e quella con il ripieno avanzato del tacchino hanno appena finito di gratinare, il gravy (la salsa ricavata dai succhi di cottura del tacchino) è pronto e così le pannocchie.

Ore 18.15
Rimetto tutto nel carrello del supermercato, scendo a piano terra e riattraverso il centro commerciale gremito di persone diretta al mio grattacielo. Al ricercato abbigliamento descritto prima si sono aggiunte anche alcune caratteristiche e vistosissime macchie.

Ore 18.30 
Arrivo al mio appartamento. Gli ospiti sono già quasi tutti arrivati. 
Accendo la mia piccola piastra elettrica e riscaldo velocemente le mashed potatoes e la pentola di fagiolini.
Porto quindi tutto in tavola e ceniamo. Una delle ospiti ha portato un pasticcio di cavolfiore e pancetta, tipico di una zona del South Carolina, e una specie di focaccia tagliata a striscioline. I nostri ex vicini della casa nel deserto hanno portato una apple pie e una blueberry pie. Siamo in 12 ma c'è cibo per una trentina di persone. 

Mangiamo a quattro palmenti, e nel frattempo ridiamo, parliamo a tutto spiano e gustiamo la gioia di essere insieme, che è poi l'essenza stessa di questa festa. 
Col l'occasione della cena del Ringraziamento abbiamo invitato le persone che ci sono più care, e i nostri ospiti vengono da tutti continenti e anche se per molti questa festa è estranea alle tradizioni del loro paese, sono comunque tutti qui, perchè alla fine è una scusa per stare insieme, per festeggiare l'amicizia che ci lega.

Ecco qualche foto del tavolo delle bevande, dei macaroni and cheese e del tacchino fatte dopo l'assalto di 12 persone.



La cena alla fine è andata benissimo e nessuno si è accorto che sul tavolo, al posto della tovaglia, c'era un lenzuolo :-)
Buon Thanksgiving a tutti, con un giorno di ritardo.

mercoledì 1 ottobre 2014

Domande e stereotipi

Oggi vi racconto un aspetto dell'espatrio con cui mi trovo spesso ad avere a che fare e che mi fa di volta in volta divertire o arrabbiare, ovvero le domande assurde, quelle basate sugli stereotipi.
Alzi la mano chi, vivendo all'estero, non se le è mai sentite fare.
Le persone di altre nazionalità che incontri nella tua vita quotidiana ti riempiono di domande sull'Italia, specie quelli che non ci sono mai stati. Quando poi torni sul patrio suolo, parenti e amici aggiungono la loro dose di quesiti riguardanti il paese estero in cui vivi.
Ve ne propongo alcune.

Ma non hai paura a vivere in Medio Oriente?
La regina delle domande. Premesso che la situazione non è uguale in tutti i paesi mediorientali, non ho affatto paura a vivere qui. Le misure di sicurezza per prevenire ogni fenomeno legato al terrorismo sono incredibili, e la criminalità comune è bassissima. Per dire, qui puoi lasciare la borsa in macchina, in bella vista, e dimenticarti anche la macchina aperta. Quando torni sia la borsa che la macchina sono ancora lì.

Devi coprirti la testa quando esci, vero?
No. Ci si può vestire come si vuole, nei limiti della decenza (come del resto anche in Occidente).
Quando abitavo nella casa in mezzo al deserto, per uscire indossavo l'abaya, la veste nera delle donne arabe, e lo shayla, il sottile velo nero che copre i capelli. Ma è stata una mia decisione, non me l'ha imposto nessuno. Ora che vivo in città esco vestita normalmente e con i capelli al vento.
Tra parentesi, scegliere di indossare i vestiti locali mi ha permesso di fare esperienze meravigliose e che porterò per sempre nel cuore.

Dev'essere bello vivere in un paese così ricco.. ma i grattacieli sono tutti d'oro?
Il paese è ricco, vero. Ma non ci sono grattacieli d'oro, nemmeno uno. Oltre a questo, non sono tutti ricchi, e ogni città ha anche quartieri esteticamente poco piacevoli e senza edifici alti e imponenti, esattamente come in Occidente.

La gente gira a dorso di cammello?
Cammelli, cammelli ovunque!!! siamo seri: i cammelli hanno un posto importante nel patrimonio culturale del paese. Ci sono corse di cammelli, concorsi di bellezza per cammelli, e il possesso di questi animali è di per sè simbolo di prestigio. Ma al di là di questo non è così facile vederli, specie in città. Soprattutto, nessuno li usa come trasporto, almeno nei centri urbani.

Ma cosa si mangia lì, oltre al cous cous?
Il cous cous qui non si mangia. E' un piatto dell'Africa settentrionale, qui non è diffuso.
La cucina locale ha piatti diversi, ad esempio il cammello bollito.
C'è anche da dire che l'80-85% degli abitanti di questo paese sono immigrati, prevalentemente dal subcontinente indiano, dalle Filippine e da altri paesi mediorientali, per cui è estremamente facile trovare piatti provenienti da questi paesi, dal chicken tikka al moutabal.

Passo ora ad alcune delle domande che mi sono sentita rivolgere qui sull'Italia. Tra parentesi, la nazionalità della persona che mi ha fatto la domanda.

Oh, sei Italiana! mi daresti la ricetta originale della Caesar salad? (Statunitense)
Le fettuccine Alfredo, la Caesar salad, gli spaghetti con le polpettine. Sono innumerevoli i piatti che molte persone in giro per il mondo reputano la quintessenza della cucina italiana e che per noi invece sono sconosciuti o quasi.
La Caesar salad, in particolare, viene creduta un piatto tipico dell'antica Roma a causa di quel "Caesar" che viene associato a Giulio Cesare. In effetti questo piatto è stato creato da un Italiano di nome Cesare, ma in tempi recenti e in Messico.

Ma oltre alla pizza mangiate anche altre cose? (Neozelandese)
Eh già. Il principe degli stereotipi, la pizza. In generale mi è capitato di incontrare persone che dell'Italia sapevano davvero pochissimo ( e anche Italiani che non sapevano assolutamente nulla sul paese dove vivo...)

Com'è il deserto, in Italia? (Araba)
Questa domanda me l'ha fatta una ragazzina di 13 anni nata qui, che non riusciva ad immaginare un paesaggio che non fosse desertico, ed è rimasta ad ascoltare affascinata mentre le parlavo di boschi, di laghi, di montagne, di fiumi e campi coltivati.

Ma tu, dentro, ti senti una Romana antica? (Sudafricana)
Dopo la pizza, la fama dell'antica Roma è qualcosa che è giunta ai quattro angoli del globo. Non so mai cosa rispondere, a questa domanda. Non ne capisco neanche il senso.

Dove hai detto che abiti? (chiunque)
Vivendo all'estero, una delle prime cose che si scoprono è che, al di là del fatto che Roma è la capitale, la gente non sa nulla della geografia italiana. Quando dico che sono Genovese mi chiedono se abito vicino a Roma. Una signora nata all'estero da genitori italiani mi ha detto: "Ah, Genova! la conosco bene, nella zona dei laghi". Sto ancora cercando di capire di quali laghi stesse parlando.
Di solito per evitare ulteriori domande dico subito: "Sono di Genova, una città affacciata sul mare nel nord-ovest dell'Italia, a sud di Milano".

Oltre a queste domande, che sono comunque tutte piuttosto innocenti e senza alcun intento diffamatorio, ricordo particolarmente bene un episodio avvenuto poco più di un anno fa, al matrimonio di una coppia di amici americani. Seduto a tavola accanto a me c'era un signore proveniente dall'Irlanda del Nord, piuttosto anziano, e mentre parlavamo mi ha chiesto come mi chiamavo.
Non aveva mai sentito il mio nome, e mi ha chiesto la traduzione in Inglese. Al che gli ho detto che il mio nome non ha una versione inglese, ma è un nome latino che significa "bionda".
Lui mi ha guardato perplesso.
- Bionda?
- Eh già, mi chiamo così anche se non sono bionda (ho i capelli castani).
E lui:
- Beh, lo sei per essere Italiana! Gli Italiani si sa, sono TUTTI SCURI!!!!

Mi sono dovuta mordere la lingua per non scoppiargli a ridere in faccia :-)

sabato 20 settembre 2014

Un biglietto e tanta emozione

Era una mattina di Gennaio del 2012 e la macchina correva rapida verso l'aeroporto di Malpensa, terminal 1, da dove di lì a poche ore sarebbe partito il mio volo. 
Nel bagagliaio c'erano due valigie piene di vestiti, libri, lenzuola, tovaglie. C'era la macchinetta per tirare la pasta, una mezzaluna, un tagliere, una grattugia. E poi un barattolo di olive taggiasche sott'olio, un pacco di farina di farro, una confezione di trofie.
E da qualche parte, forse in mezzo ai calzini o dentro allo scolapasta, c'era anche tanta emozione, tanta curiosità e un filino di ansia, perchè il biglietto che stringevo tra le mani era uno di quelli che non si scordano.
Era un biglietto di sola andata per il Medio Oriente, per la nuova vita che mi aspettava insieme a mio marito. Era la conferma che stavo lasciando il mio paese per un altro posto di cui non sapevo nulla, con un'altra lingua, un'altra religione, un'altra temperatura, altri usi e costumi.
Ho salutato i miei genitori, ho preso le valigie e mi sono avviata al check in. 
La cosa che ricordo maggiormente di quel volo è l'impazienza con cui attendevo di atterrare, mentre quelle sette ore passavano con una lentezza esasperante. Non avevo paura, non provavo nessun dolore ad aver lasciato l'Italia. Volevo solo atterrare, abbracciare mio marito che mi aspettava agli arrivi e iniziare finalmente insieme a lui la mia nuova vita di donna sposata. 

Così è cominciata la mia vita da espatriata. Abbiamo vissuto per due anni nella casa in mezzo al deserto, dove ho combattuto con gli scarafaggi, la muffa, i soffitti che gocciolavano e le finestre che non si potevano aprire. Ho familiarizzato con i 50°C estivi, le tempeste di sabbia e i banchi di nebbia. Ho scoperto quanto possa essere bello il deserto, quanto il mare dei tropici sia ricco di una fauna straordinaria. Ho provato sulla mia pelle la meravigliosa ospitalità araba, ho conosciuto persone straordinarie che ricorderò per sempre.
Ho avuto un sacco di esperienze, alcune belle, altre meno, ma tutte mi hanno permesso di scoprire qualcosa in più sulla cultura, sugli usi e costumi di questo paese.

Poi è apparsa all'orizzonte la possibilità concreta di una vita in Australia. Abbiamo ottenuto il visto di residenza permanente, abbiamo fatto viaggi esplorativi e tantissimi progetti.
Infine, pochi giorni fa, con grande emozione ci siamo ritrovati tra le mani un altro biglietto importante, quello di sola andata per questo bellissimo continente.
All'inizio del 2015 ci trasferiremo in Australia.

Nell'ultimo mese sono diventata un'esperta di traslochi intercontinentali, spedizioni cargo, dazi doganali e documenti vari. Ho fatto lunghi inventari delle cose da portare, ho fronteggiato i malumori dei parenti alla notizia del trasferimento, ho cercato di spiegare le cose in modo chiaro e comprensibile per tutti (non sempre ci sono riuscita, purtroppo), ho cercato di pianificare e organizzarmi nel miglior modo possibile. 

Sono emozionata, emozionatissima. Nello stesso tempo però mi sembra tutto irreale. Forse è perchè mi sono talmente abituata a stare qui che faccio fatica ad impostare la mia mente su altre frequenze. Faccio fatica a pensare che tra pochi mesi potrò finalmente lavorare, potrò vedere un paesaggio senza sabbia, con alberi e prati e un clima più gradevole.
Ogni tanto ho bisogno di prendere il biglietto e guardarlo, per convincermi che davvero non è un sogno.

Chissà come sarà. L'ansia sale, sempre di più.
Questa mattina mi sono svegliata come al solito alle 4.45 e ho atteso che arrivassero le 5 e la sveglia suonasse. Poi mi sono resa conto che oggi è venerdì, il primo giorno del weekend, quindi mio marito non doveva andare al lavoro e avrei potuto dormire ancora.
Mi sono alzata e ho fatto due passi per casa, al buio. Fuori la città dormiva. Non una macchina nelle strade, nessun passante, niente. Anche il sole sembrava essersi dimenticato di sorgere. L'unica persona perfettamente sveglia alle 5 del mattino di un giorno festivo ero io.
Ho tirato un sospiro e sono tornata a letto, a guardare il soffitto e a pensare al trasloco, cercando di stare più ferma che potevo per non disturbare il coniuge che dormiva tranquillo.
Australia, aspettaci. Stiamo per arrivare.

lunedì 25 agosto 2014

Baku, la città che non mi aspettavo

Trovo sempre difficile, raccontare una città.
Non so mai da dove partire, se sia meglio descrivere prima gli edifici, le strade, gli spazi verdi, e solo dopo collocare in questo scenario appena tratteggiato le persone che ci vivono, l'atmosfera, le emozioni, oppure fare il contrario, raccontare prima la società e aggiungere poi a pennellate delicate lo sfondo, le decorazioni dei palazzi, gli zampilli delle fontane.

Comincerò col dire che siamo finiti a Baku, capitale dell'Azerbaijan, per puro caso, guardando le destinazioni raggiunte da una compagnia aerea di cui avevamo un buono da utilizzare entro l'estate.
Mentre sorvolavamo l'Iran, ho letto sulla Lonely Planet che l'Azerbaijan era stata una repubblica sovietica e avevo inconsciamente accostato Baku alle città dei paesi Baltici, la cui periferia è spesso dominata da schiere di palazzoni squadrati in cemento, squallidi e un po' cadenti, retaggio dell'era sovietica.

Siamo atterrati un giovedì, nel primo pomeriggio, e già nel tragitto dall'aeroporto all'hotel mi sono resa conto che la città era completamente diversa da come l'avevo immaginata.
Era bella, ricca e ben tenuta, con grandi viali alberati fiancheggiati da piacevoli edifici, piena di parchi e fontane, con un bellissimo lungomare affacciato sul Mar Caspio.


Il centro storico, patrimonio UNESCO, è superbo. Abbiamo cominciato la visita esplorando la bellissima Qiz Qalasi o Maiden Tower, una possente torre del XII secolo, otto piani racchiusi da mura spesse fino a cinque metri.


Abbiamo continuato con la visita del bellissimo Sirvansahlar Sarayi, il palazzo degli Shirvanshah, uno straordinario complesso costruito nel XV secolo dall'omonima dinastia, quando la capitale del regno venne spostata dalla città di Shemakha a Baku, in seguito ad un terremoto.




Tra le altre cose che meritano una visita c'è il museo dei tappeti, manifattura tradizionale azera, che contiene alcuni pezzi davvero incantevoli.
Per chi desiderasse acquistarne uno in uno dei tanti negozi del centro, è bene sapere che occorre procurarsi preventivamente un certificato che garantisca che il tappeto ha meno di 30 anni, altrimenti è impossibile portarlo fuori dal paese. Noi purtroppo abbiamo scoperto dell'esistenza di questo certificato quando ormai era troppo tardi per ottenerlo, e ci siamo dovuti accontentare di ammirare i tappeti esposti senza comprare nulla.


Infine occorre ricordare il suggestivo Ateshgah, il Tempio del Fuoco, un antico edificio di culto zoroastriano che sorge subito fuori dalla capitale.


Un altro fattore che ha indubbiamente allietato la nostra permanenza è stato il cibo, tanto che la cucina azera è balzata al primo posto nelle lista delle mie cucine etniche preferite insieme a quella georgiana. Visto che la Georgia confina con l'Azerbaijan, forse dovrei dire in generale che la cucina caucasica è la mia preferita.

Oltre a tutto questo va detto che i prezzi sono molto bassi. Per fare qualche esempio, una corsa in metropolitana costa l'equivalente di 20 centesimi di euro, mentre per una cena di 4 portate a testa (avevamo saltato il pranzo...), quindi otto abbondantissimi piatti, abbiamo speso meno di 40 euro.

Anche Baku, comunque, ha i suoi lati negativi. Il primo che abbiamo dovuto affrontare è stato la difficoltà ad ottenere il visto turistico. Per entrare nel paese è necessario infatti compilare una serie di moduli scaricabili dal sito di una qualunque ambasciata azera, quindi contattare un'agenzia turistica accreditata (l'elenco è sempre sul sito dell'ambasciata) per ottenere un invito, quindi spedire tutto il malloppo di moduli compilati, fotocopia dei documenti, fototessera, prenotazione dell'hotel e invito in Azerbaijan, e incrociare le dita.
Se va tutto bene dopo qualche tempo arriverà il foglio col visto, che all'arrivo nel paese verrà scrupolosamente esaminato, insieme al vostro passaporto ( il mio lo hanno controllato pagina per pagina...).

La seconda nota dolente è l'inquinamento del suolo, dovuto all'estrazione del petrolio e alla sua lavorazione, o meglio, alla poca cura per l'ambiente nell'eseguire il processo. Il governo ha avviato un programma di risanamento, ma c'è ancora molto da fare.

In ogni caso, questa città merita di essere visitata.
Per me è un mistero come Baku non sia strapiena di turisti. Il mio consiglio è, se vi capita, di andarci, perchè ne vale davvero la pena, e di andarci al più presto, prima che il resto del mondo si accorga di quanto è bella. 

giovedì 10 luglio 2014

Cercasi colf. Pagamento metà in contanti, metà in natura

Cosa volevate fare da grandi, quando eravate bambini?
Io ero sicurissima che sarei diventata entomologa, a causa della mia passione per gli insetti. Tra i miei amichetti c'era chi voleva fare la veterinaria, l'astronauta, il medico, il calciatore, la ballerina e tutta quella gamma di professioni che fanno colpo sull'immaginario infantile.
Non ho mai conosciuto nessun bambino/a che tra i suoi sogni avesse quello di diventare collaboratore/collaboratrice domestica.
Perchè diciamocelo, non è un lavoro a cui le persone aspirino. Non ci sono telefilm, cartoni animati, reality show che ci raccontino quanto sia bella ed appassionante la vita della colf.
E' un lavoro di ripiego. E' un lavoro che molte persone che conosco si vergognerebbero a fare, perchè non è prestigioso. La parola "colf" evoca l'immagine di una persona poco istruita, non molto intelligente, magari straniera e non più giovanissima, e in una società come la nostra, dove l'apparenza è fondamentale, questo è intollerabile.

Sono sicura che nemmeno le due amiche che hanno scritto Cercasi Colf. Pagamento metà in contanti, metà in natura da bambine volevano diventare collaboratrici domestiche.
Il titolo è un reale (e assurdo) annuncio di lavoro, che si trova raccolto, insieme a molti altri, in un capitolo del libro, e che rende l'idea di come molte persone considerino questo lavoro.
Provate solo ad immaginare di sostituire la parola "colf" con qualcos'altro, tipo: Cercasi avvocato. Pagamento metà in contanti, metà in natura. Sarebbe finito sui giornali. Ne avrebbero parlato in televisione, ci sarebbero state querele e proteste dalle associazioni di categoria.
Ma qui parliamo di colf, quindi la faccenda non interessa a nessuno. Chissà quante persone hanno letto quell'annuncio (come tutti gli altri presenti nel libro) e non si sono nemmeno soffermate a pensare su quanto fosse assurdo e fuori luogo.

Il libro, magnificamente scritto, racconta le vicissitudini quotidiane delle collaboratrici domestiche, tra case sporchissime e "padroni" fuori di testa e con pretese assurde. Il tutto è narrato con un'ironia tagliente, che vi farà leggere il libro tutto d'un fiato e - soprattutto - vi farà venire i crampi dalle risate dalla prima all'ultima pagina.
Ma non solo. Questo libro è anche la dimostrazione di come i luoghi comuni spesso non siano che un crogiolo di sciocchezze. Dietro allo pseudonimo AnarchiColf Anonima ci sono due donne giovani, intelligenti, italianissime e con una carriera alle spalle. Due donne che fanno le colf per necessità, e non c'è bisogno che mi lanci in discorsi noti a tutti sulla disoccupazione e la crisi del nostro paese. 
Due donne fortissime, sotto tutti i punti di vista.

Il mio consiglio quindi è: leggetelo. Leggetelo perchè ne vale la pena, perchè vi farà ridere fino alle lacrime e solleverà un velo su un lavoro su cui di solito non ci si sofferma a pensare.
Oltre a tutto questo, al momento il libro è in offerta su Amazon a soli 0.99 € (CLICK!), e sarebbe davvero un peccato farselo sfuggire.

Un messaggio per le AnarchiColf Anonime: ragazze, vi ammiro tantissimo. Per la vostra forza d'animo, per la fatica che fate tutti i giorni, e soprattutto, per aver dimostrato come ogni lavoro che permette di sostentare se stessi e i propri figli sia dignitoso e assolutamente meritevole di rispetto.
Vi auguro col cuore che nel vostro futuro ci sia un altro lavoro, più gratificante, più stimolante e più interessante, e nel frattempo spero che il vostro libro sia letto da tantissime persone.


Autore: AnarchiColf Anonima
Titolo: Cercasi colf. Pagamento metà in contanti, metà in natura
Editore: Narcissus
Anno di pubblicazione: 2014


Cliccando sull'immagine qui a fianco arriverete sul blog delle AnarchiColf Anonime, nella pagina dedicata al libro. Fateci un salto, ci sono un sacco di divertentissimi articoli e anche un'anteprima del libro.

martedì 8 luglio 2014

Perle folcloristiche

Inauguro oggi la sezione delle perle folcloristiche, ovvero piccoli aneddoti sulla mia vita qui, con tre episodi relativi ai mesi scorsi.

La paletta più bella del mondo.
Al supermercato, in coda alla cassa. Tra i miei acquisti c'è un'orrenda paletta per la spazzatura color oro, ovvero quella che costava meno.
La signora in coda dietro di me inizia a guardare insistentemente il mio carrello, e infine mi rivolge la parola.
- Senta, glielo devo proprio dire: quella paletta è bellissima.
- Ehm... grazie.
- No, è proprio stupenda. Dove l'ha presa?
- Nel reparto casa, vicino alle scope e agli spazzoloni.. dove ci sono per l'appunto le palette per la spazzatura.
- Ma in quale supermercato?
- (sono in coda alla cassa e sto per pagare: in quale supermercato l'avrò mai presa?) in questo supermercato...
- Ah! grazie. E' proprio bella.

E' cilindrico, si trova dentro alla lavatrice e gira...
Quando a Gennaio ci siamo trasferiti in questo appartamento, abbiamo ovviamente portato con noi la nostra fidata lavatrice, alla quale, prima di effettuare il trasloco, avevo rimesso i bulloni per bloccare il cestello, gli stessi che quando l'avevamo comprata mi avevano fatto impazzire.
Dopo esserci trasferiti ho quindi cercato un tecnico che venisse a fare gli allacci. Dopo due settimane e mezzo di panni lavati a mano finalmente ne abbiamo trovato uno. L'uomo si presenta un pomeriggio subito dopo pranzo, mentre sto lavando i piatti.
Gli apro, lo porto nello stanzino, gli mostro l'elettrodomestico e torno a pulire la cucina.
Due minuti dopo mi chiama.
- Madam, posso tagliare la spina della lavatrice?
- Come, prego?
- Nel muro non c'è la presa, c'è solo un buco per infilarci il filo... quindi taglio la spina in fondo al cavo elettrico e metto il filo lì dentro.
- Ehm.. non c'è un'altra soluzione? una prolunga?
- No.
- D'accordo.. tagli la spina.
Cinque minuti dopo mi richiama.
- Fatto. Ora dobbiamo far partire un giro di prova per vedere se la lavatrice funziona.
- Prima occorre togliere i bulloni sul retro.
- Bulloni?
- Si, quelli per bloccare il... ehm... - e qui casca l'asino, perchè non avevo idea di come si dicesse "cestello" in Inglese.
- I bulloni che bloccano quella cosa cilindrica che si trova dentro alla lavatrice e gira, ha presente?
L'uomo ha uno sguardo vacuo.
- Madam, ora azioni la lavatrice, così vediamo se funziona.
- No, non la possiamo azionare... dobbiamo prima togliere i bulloni. Ha capito di cosa parlo? Quelli che bloccano il .... cilindro che gira. Altrimenti nelle centrifughe la lavatrice saltella.

L'uomo non ha idea di cosa io stia dicendo, nemmeno dopo avergli indicato i bulloni. Come dire, niente male per un tecnico delle lavatrici!
- Va bene... si sposti.
- Come, madam?
- Si sposti. Li tolgo io. Ce l'ha una pinza?
Ci siamo scambiati di posto e gli ho mostrato come levare i bulloni, mentre lui mi guardava con occhi sgranati, a metà tra l'imbarazzo e l'ammirazione.

Il ratto nel soffitto
Era la fine di Marzo, l'antivigilia della partenza per l'Australia.
Immaginatevi la scena: la casa è piena di pile di panni stirati e da stirare, sacchetti, libri, borse, liste di cose da portare appiccicate ovunque. Le valigie giacciono aperte e piene a metà, io sono impegnatissima a lavare, piegare, pulire, spolverare, recuperare i cavetti delle macchine fotografiche e i caricabatterie, rintracciare quel maglione e quelle scarpe che potrebbero essere utili ma chissà dove sono finiti. C'è il frigo da pulire, l'aspirapolvere da passare, le lenzuola da cambiare e mille altre cose che devono essere ultimate entro domani pomeriggio.

In mezzo a tutto questo bailamme suonano alla porta. E' il tecnico che deve pulire le grate dei condizionatori.
Qui nel deserto il sistema di condizionamento è "di serie". Tutti i palazzi vengono costruiti con dei condotti per l'aria condizionata, e negli appartamenti in ogni stanza ci sono una o più grate da cui esce l'aria fredda.

Il tecnico non l'abbiamo chiamato noi, la pulitura tocca a tutti gli appartamenti obbligatoriamente, a rotazione.
Lo faccio entrare e torno alle mille cose che sto facendo.
Lui sistema la scala in soggiorno, si arrampica, svita le grate del sistema di condizionamento e le pulisce con uno straccio. Nel frattempo, visto che io sono nella stanza accanto, facciamo conversazione. L'uomo viene dal sub-continente indiano, probabilmente dal Pakistan o dal Bangladesh, come la maggior parte delle persone che vivono qui. Il nostro colloquio è difficoltoso perchè lui non capisce il mio accento e io faccio molta fatica a capire il suo.
- Da dove viene, madam? è americana?
- No, sono Italiana.
- Come?
- Vengo dall'Italia.
- Ah, l'Italia... e il marito è Italiano?
- No, mio marito è Americano.

La cosa scatena in lui un incomprensibile scroscio di risate. Nel frattempo finisce di pulire le grate del salotto e mi grida che va a pulire quelle del bagno.
Io gli dico che non ci sono problemi e continuo a stirare, piegando le camicie alla velocità della luce.
Poi prendo una pila di roba stirata e la porto in camera da letto. Così facendo passo davanti alla porta del bagno, giusto in tempo per vedere il tecnico che sta per salire sul ripiano dove c'è il lavandino, e dove, tra le altre cose, ci sono i nostri spazzolini da denti.
Butto la roba sul letto e torno indietro in fretta.
- Aspetti, tolgo gli spazzolini...
- Come? - risponde lui, poggiando la sua scarpa fangosa sul mio spazzolino.
- Oh, mi scusi, ho pestato questo - aggiunge subito dopo.
- Va bene, non c'è problema - gli dico. Pazienza, mi dico, gli spazzolini li ricompriamo.

Torno a stirare. Dopo poco sento una risata proveniente dal bagno, subito seguita dalle parole dell'uomo.
- Madam, può venire un attimo?
Corro in bagno.
- Madam, c'è un ratto, qui.
- COSA??? dove? ma vivo?
- Nel condotto dell'aria condizionata, morto.
La cosa sembra divertirlo enormemente. Io non ci trovo niente di divertente. Mi chiedo come sia possibile che il senso dell'umorismo cambi così tanto da paese a paese.
- Posso avere un sacchetto, madam? - mi chiede, mentre lo guardo sconvolta.
Gli porto il sacchetto. Lui infila una mano nel condotto e afferra il ratto morto, mettendolo nel sacchetto, il tutto ovviamente senza guanti.
Non ho parole. L'animale è grosso come un piccolo gatto.
Lui scende dal ripiano, chiude il sacchetto e lo depone nel corridoio.
- Poi lo porto via, madam.

Annuisco, senza parole, e torno a stirare, mentre pianifico una super disinfezione del bagno, più che altro per far andare via quel brividino che ho nella schiena.
- Ho finito, madam - mi urla.
Poi sento che apre il rubinetto della cucina. Vorrà lavarsi le mani? il fatto è che, accanto al lavandino, c'è la pila dei piatti puliti lasciati ad asciugare e non vorrei che dell'acqua sporca ci finisse sopra...

Corro in cucina per spostare i piatti. In effetti l'uomo non si sta lavando le mani. Sta lavando lo straccio lercio, quello che ha usato per pulire le grate.
- ASPETTTTIIIIIIIII!!! - gli urlo, ma è troppo tardi.

Calma. I piatti si possono lavare. Rilassati. Rilassati. Rilassati.

Mentre sto cercando di non dare in escandescenze lui mi fa un discorso incomprensibile.
Io lo guardo e, cercando di non pensare alla montagna di stoviglie che dovrò in qualche modo disinfettare, gli chiedo se gli sia già successo di trovare ratti in questo edificio.
Lui mi guarda.
- Non ha capito madam, vero?
- No.
Lui sospira e ricomincia a parlare. Mi concentro. Tip, sta dicendo tip. Vuole la mancia.
Se lui fosse stato Occidentale gli avrei dato una pedata nel sedere, altro che la mancia. Ma qui è diverso.
Lui ha davvero fatto del suo meglio e non ha colpa se i miei standard igienici sono diversi dai suoi. Il suo stipendio è probabilmente molto basso e la mancia che gli posso dare io, per quanto scarsa, per lui è preziosissima, e a fine mese sarà qualche moneta in più da spedire alla sua famiglia, nel suo paese.
Lo guardo, sospiro, e penso alle interminabili file di Pakistani che alla fine di ogni mese sostano davanti alle agenzie di money transfer.
Gli allungo una banconota.
- Grazie madam, grazie! - mi dice. Poi afferra il sacchetto col topo morto e se ne va.
Ora mi resta solo da disinfettare il bagno. E la cucina. E i piatti. Per fortuna che per finire di fare le valigie c'è anche la notte...

mercoledì 2 luglio 2014

Di luoghi mitici e ricette deliziose

Ho sempre amato la mitologia greca, da quando ho memoria. Una delle mie storie preferite è sempre stata il mito di Giasone e gli Argonauti e il loro rocambolesco viaggio verso la Colchide, alla conquista del vello d'oro. 
Come per tutti i miti, anche questo si presta a molteplici livelli di lettura. Quando ero bambina ne amavo soprattutto l'aspetto avventuroso, gli imprevisti, l'incontro con le Arpie, la minaccia delle Simplegadi, poi crescendo sono diventata più sensibile al lato umano della vicenda, la superficialità di Giasone e soprattutto, grazie ad Euripide, il dolore straziante di Medea e la sua atroce ed inumana vendetta. 
Penso che sia una storia bellissima, che, spogliata dall'aspetto mitico, è attuale in ogni epoca, in quanto propone sentimenti che sono propri di ogni essere umano e per questo comprensibili da chiunque.

Al di là dell'aspetto letterario, il mito contiene qualcosa di reale: la Colchide esisteva davvero, e la storia di Giasone è la prova di rapporti tra questa e la Grecia già nel V-IV secolo avanti Cristo.
Oggi l'antica regione è parte della Georgia, lo stato caucasico che si affaccia sul Mar Nero.

Tutto questo sproloquio era solo il preambolo per raccontarvi che, durante la nostra luna di miele, mentre visitavamo la bellissima città vecchia di Tallinn, in Estonia, mio marito ed io ci siamo imbattuti in un ristorante georgiano. 
Io non sapevo assolutamente nulla della cucina di questo paese, anzi, non sapevo nulla in assoluto sulla Georgia, eccetto quanto scritto sopra. Il nome della capitale, Tbilisi, mi ricordava vagamente vecchie notizie del telegiornale su disordini da quelle parti nei primi anni '90, ma ero troppo piccola per capire esattamente di cosa si trattasse.
Mio marito invece conosceva bene la cucina georgiana, e visto che era l'ora di pranzo mi ha proposto di entrare e mangiare lì e io ho accettato subito, affascinata dall'idea di provare "i piatti che mangiava Medea".
Ne sono rimasta conquistata, e la cucina georgiana è balzata in testa alla lista dei ristoranti etnici che preferisco.

Poco tempo fa abbiamo trovato un bellissimo sito che spiega nel dettaglio e con abbondanza di foto come realizzare i piatti georgiani.
Così, in quattro e quattr'otto, la scorsa settimana abbiamo invitato una coppia di amici e abbiamo organizzato una cena georgiana.
I piatti che ho cucinato sono stati:
- i khinkali, deliziosi fagottini di carne, una via di mezzo tra i ravioli e i dim sum cinesi (ricetta QUI)
- il kachapuri, una focaccia davvero squisita e particolare, con formaggio e uova (ricetta QUI)
- le polpette dell'Ossezia, decisamente caloriche ma molto buone (ricetta QUI)
- i gozinaki, delle losanghe di noci caramellate col miele (ricetta QUI)
- una sana insalata verde, per smorzare l'eccesso proteico :-)

La cena è stata un successo strepitoso, i nostri ospiti hanno spazzolato via quasi tutto quello che avevo cucinato (sono avanzati quattro khinkali e una polpetta), continuando a mangiare anche dopo che avevo portato via i piatti e servito il dolce. 
Le ricette sono davvero buone e i piatti vengono identici alle foto del sito. Ho solo qualche appunto da fare:

- per quanto riguarda i khinkali, il diametro del bicchiere usato per ritagliare i cerchi di pasta, nella ricetta è di 2,5 pollici ( circa 6,5 cm). A mio parere, per ottenere la misura "standard" occorre un diametro maggiore, sugli 8-10 cm. Io ho fatto metà dose, e avrei dovuto ottenere 15 khinkali. Con questo diametro ne ho ottenuti invece più di trenta.

- i minuti indicati per la cottura del miele dei gozinaki per me sono stati troppo pochi, al termine le losanghe di noci fuori dal frigo non stavano insieme ( il piatto è stato comunque molto apprezzato).

Concludo con una foto dei miei khinkali, l'unica che sono riuscita a fare.


PS: il sito che vi ho linkato non mi paga per pubblicizzare le sue ricette, ovviamente :-D

sabato 28 giugno 2014

Liebster Award

Un enorme grazie a Margherita di Decluttering-Italia e Memorie di una trimamma per avermi assegnato il Liebster Award.


Ora le regole prevedono di:
- ringraziare chi mi ha nominato (Margherita, lo sai che non avevo mai capito che Decluttering e memorie di una trimamma fossero entrambi scritti da te? L'ho notato solo ora.. sono veramente stordita. Comunque, ancora un enorme grazie!)
- rispondere a 10 domande da parte di chi mi sceglie
- nominare altri 10 blog/siti con meno di 200 followers
- proporre altre 10 domande ai nominati
- avvisare i vincitori

Ecco le domande di Margherita:
1- Se potessi scegliere di vivere in un altro paese dove ti piacerebbe abitare?
Sto aspettando con ansia il trasferimento in Australia...
2- Il viaggio dei sogni che non hai ancora fatto?
Vorrei vedere gli Stati Uniti. Anche mille altri posti, però gli Stati Uniti per primi, perchè sono la patria di mio marito.
3- Perchè hai deciso di aprire il blog?
Mi piaceva l'idea di avere un diario virtuale, dove altri potessero commentare quello che scrivevo. Poi mi sono trasferita nel deserto, e il diario è diventato uno sfogo essenziale, dove raccontare la mia vita qui. 
4- Qual è il tuo colore preferito?
Il blu oltremare.
5- Com'è il tuo rapporto con la cucina?
Ottimo, adoro cucinare!!
6- Meglio immagini o parole?
Le amo entrambe, trovo che si completino a vicenda. 
7- Ma quanta importanza ha il numero dei followers?
Non molta. Mi fa piacere avere chi mi legge, ma che sia uno, dieci o mille non mi interessa granchè.
8- Il momento della giornata preferito?
Quando mio marito torna a casa dal lavoro. Stare con lui è la cosa più bella in assoluto, detesto le ore della giornata in cui non siamo insieme.
9- Qual è il social network che ti piace di più?
Sinceramente? nessuno. 
10- Qual è l'oggetto che non riusciresti mai a buttare via?
Domanda difficile, perchè non sono molto attaccata agli oggetti. I regali di mio marito, credo.


Ecco le mie nomine ( in ordine alfabetico). Alcuni blog non so quanti followers abbiano... ma gli assegno lo stesso il premio.

Ed ora ecco le mie 10 domande.
1- Immagina di avere una giornata libera, tutta per te. Niente lavoro, panni da stirare o faccende da sbrigare. Come occuperesti il tempo?
2- Qual è il ricordo più bello che hai della tua infanzia?
3- Qual è il tuo comfort food, il cibo che cucini (o che compri) per coccolarti?
4- Qual è la cosa che ti fa più arrabbiare?
5- Qual è il tuo fiore preferito?
6- Raccontami un tuo sogno nel cassetto.
7- Qual è il posto più bello che hai visitato?
8- Cosa ti mette in imbarazzo?
9- Com'è la tua colazione ideale?
10- Qual è stata la cosa più assurda che hai fatto, nella tua vita?

Ora corro ad avvisare i vincitori...

martedì 24 giugno 2014

American recipes for dummies

Non ho pregiudizi sulle cucine degli altri paesi, giuro. Cucino felicemente qualunque cosa, dal burek albanese all'hummus arabo, alla palacsinta ungherese. Non faccio distinzioni, e anzi, sono felice di sperimentare nuovi accostamenti di sapori e magari anche nuove tecniche.
Se però devo dirla tutta, con i dolci statunitensi ho qualche problema. Non problemi di realizzazione, è più una questione di concetto. Ovvero, quando comincio a preparare un dolce americano so già che avrò delle difficoltà e che probabilmente mi arrabbierò abbastanza. 

Il primo problema è sempre nelle dosi. Io sono una persona precisa ( quando cucino) e misuro gli ingredienti al grammo, quando ne ho la possibilità. Penso che l'invenzione del Sistema Internazionale delle unità di misura sia stata una cosa fantastica. Quanta farina dobbiamo usare in questa torta? 250 grammi. Lineare, semplice, ottenibile ovunque tramite una qualunque bilancia.
Il motivo per cui gli Stati Uniti, nel XXI secolo, ancora non abbiano adottato questo sistema resta per me un mistero. Tirare la sfoglia a 1/8 di pollice di spessore. Ogni volta che sono alle prese con una ricetta americana so già che dovrò spendere un po' di tempo a fare i calcoli.
Non tanto per i pollici, che quelli almeno sono una misura fissa, quando piuttosto per le tazze e i cucchiai. 

A volte su internet si trovano affermazioni assurde a riguardo, tipo: "Una tazza equivale a 115 g", come se fosse un valore adatto ad ogni ingrediente. In realtà ogni cosa ha il suo peso specifico, e se 115 grammi sono una tazza di farina 00, una tazza di zucchero semolato ne pesa invece 200, una di acqua 236 e così via.
Per gli ingredienti di uso più frequente (farina, burro, zucchero, etc) si trovano facilmente delle tabelle di conversione, ma nelle ricette spesso ci sono componenti particolari la cui conversione in grammi non è facilmente reperibile. 
Lo so, lo so. Mi devo decidere a comprare il set standard di tazze e cucchiaini usati come misura per fare questi dolci.

Una volta risolto il problema delle dosi, mi trovo spesso davanti ad ingredienti sconosciuti. Una tazza di biscuit mix. Una tazza di Graham crackers. Al supermercato qui non c'è niente del genere, per cui mi ritrovo  a vagare su internet alla ricerca di una ricetta sostitutiva e subito dopo a dover decidere quale tra le ricette trovate (spesso diverse tra loro) assomiglia di più a qualcosa che non ho mai visto e non so che sapore abbia.
Infine, di solito il risultato ottenuto ha un gusto che non mi entusiasma. Questo però passa in secondo piano, in quanto di solito cucino questi piatti per mio marito, quindi l'importante è che piacciano a lui.
Dietro sua richiesta ho cucinato innumerevoli pies, dalla classica apple pie (quelle che Nonna Papera metteva a raffreddare sul davanzale, per intenderci) alla Key lime pie, mi sono cimentata con gli English muffins (che sono una specie di panini, non c'entrano niente con i muffins che si cuociono nei pirottini), con i buttermilk biscuits e con innumerevoli altre ricette.

In questi giorni, dietro richiesta del coniuge, ho preparato due ricette a lui care.
La prima è la coffee cake, che non è una torta al caffè ma una torta da mangiare insieme al caffè. Negli Stati Uniti ovviamente si trova al supermercato e la preferita di mio marito è la Entenmann's, di cui, dopo lunga ricerca su internet, ho trovato una buona ricetta QUI. Non ho foto di questa torta, in quanto mio marito l'ha portata al lavoro e i colleghi l'hanno spazzolata tutta.

Poi è stata la volta degli S'more cookies, la cui realizzazione è stata più complessa, a partire dalla comprensione di quello che mio marito mi stava chiedendo.

- Dear, can we have S'more cookies?

Io ho capito "more cookies" più biscotti, e sentendomi un verme per non cucinare i biscotti abbastanza spesso, gli ho chiesto preoccupata come potessi supplire a questa mancanza di zuccheri :-)

Chiarito l'equivoco mi sono messa alla ricerca della ricetta e alla fine ne ho trovata una che mi ispirava abbastanza QUI.
Le dosi, lo dico subito, mi hanno fatto impazzire. 
"1/2 cucchiaino + 1/8 di cucchiaino di baking soda". Mi sembrano gli esercizi sulle frazioni che facevo alle medie.
I graham crackers, uno degli ingredienti, mi hanno dato qualche preoccupazione, soprattutto perchè al supermercato non ci sono e non capivo come poterli sostituire. Inizialmente avevo pensato che fossero una specie di Oro Saiwa, ma ovviamente non c'entrano niente. Mio marito li descriveva come "uguali alle sfoglie del napoleon" ( la millefoglie) e mi ero già rassegnata a mettermi ad impastare la pasta sfoglia quando ho trovato una foto dei biscotti in questione, e ho capito che con la pasta sfoglia non c'entravano niente.
Alla fine ho seguito QUESTA ricetta, che nonostante sia senza miele ( quelli originali sono biscotti al miele) a detta di mio marito sono "abbastanza simili" ai biscotti in questione.

Una volta cotti e sbriciolati i crackers, ho preparato l'impasto per gli S'more cookies. 
Per chi volesse cimentarsi, il brown sugar indicato nella ricetta non è lo zucchero di canna, ma il normale zucchero semolato bianco miscelato con melassa. Questo zucchero ha un aroma molto intenso e particolare e una consistenza sui generis. La prima volta che ne ho aperto un pacco, sono stata cinque minuti a rovistarci dentro, sicura che ci fossero degli insetti, delle larve di farfallina, un qualche tipo di animale, perchè lo zucchero si muoveva. In realtà è fatto così, non c'è niente dentro, tranquilli, i chicchi si muovono in modo diverso e più lento del normale zucchero semolato a cui siamo abituati.
Per quanto riguarda il cioccolato, ho utilizzato del cioccolato al latte Lindt, in quanto per principio non mangio e non uso il cioccolato della marca indicata nella ricetta (i cui ingredienti mi lasciano sempre perplessa: il cacao è pochissimo rispetto ai (pessimi) grassi utilizzati, e vogliamo parlare dell'olio di illipe?)

Infine, un appunto sui marshmallows: nella ricetta viene detto di dividere l'impasto in palline e schiacciare i marshmallows all'interno, per evitare che restino sui lati o sotto il biscotto. Io ci ho provato, ma non ci sono riuscita. I marshmallows sono come pezzetti di gommapiuma, io li schiacciavo, loro si deformavano ma non si spostavano di un millimetro, restando fissi sull'esterno del biscotto. Ho provato a rifare le palline mettendo i marshmallows all'interno, ma non riuscivo a farle stare insieme. 
Ho pensato pazienza, tanto poi nel forno si fondono... ecco, errore. Io poi ho fatto un errore doppio non guardando la temperatura indicata nella ricetta e accendendo automaticamente il forno a 200. Risultato: i marshmallows si sono liquefatti ben prima che il biscotto fosse cotto, colando giù e formando un piastrone nero e bruciato alla base del biscotto. La prima teglia l'ho buttata. 
I 350° indicati nella ricetta sono ovviamente gradi Fahrenheit, che corrispondono a circa 175°C. Nel mio forno sono comunque tanti, e le successive teglie le ho cotte a 160°C.



Nonostante tutto, sono venuti bene. La cosa più strana, quando preparo queste ricette, è che alla fine c'è sempre qualche Americano che assaggia, si complimenta e mi chiede la ricetta, e io passo per una esperta di cucina statunitense, tanto che dopo la ricetta seguono richieste di consigli vari, e mio marito mi dice: "Puoi preparare degli altri biscotti? i miei colleghi li hanno chiesti...".


mercoledì 18 giugno 2014

Esami di Inglese e salamandre gonfiabili

Sto studiando per l'IELTS Academic, esame che ho già dato due anni fa, ma il cui risultato, ahimè, vale solo per due anni.
Non voglio parlarvi dell'esame, una cui esauriente descrizione si può trovare nella pagina di Wikipedia che ho linkato, ma soffermarmi su un paio di cose.

La prima è che in questo esame può capitare di dover parlare o di dover scrivere di qualunque argomento, da come salvare la foresta amazzonica al problema dell'erosione del suolo.
Ovviamente, visto che questo è solo un esame di Inglese, in realtà quello che si scrive o di cui si parla non ha importanza, purchè sia corretto e coerente. Nessuno richiede che sia vero.
Ho sperimentato personalmente questa cosa la volta scorsa, dove una delle due prove scritte era sulle motivazioni e sulla prevenzione della criminalità giovanile. Dopo un attimo di smarrimento (non so NULLA a riguardo) mi sono inventata di sana pianta teorie "di un'università americana" su come l'ambiente influisca sui bambini imprimendo un'impronta indelebile sulla loro psiche e influenzando fortemente la loro vita, e ho proposto rimedi adeguati. E' andata bene.

Da un certo punto di vista è anche divertente. Il problema, per me, è che, soprattutto nelle domande orali, ho la tendenza a dire sempre la verità, in quanto è molto più semplice ed immediata rispetto all'invenzione di una storiella.
L'esaminatore della prova orale, la volta scorsa, dopo una serie di domande generali sull'Italia (il clima nelle varie zone, le città d'arte, la cucina, il mare) è passato allo sport, focalizzandosi sul calcio.
E io, di calcio, non so assolutamente nulla. Per dire, non sapevo neanche che quest'anno ci fossero i mondiali, e quando l'ho scoperto ero convinta che fossero in Qatar.
L'esaminatore è passato da domande generali ( quali devono essere le qualità di un calciatore) fino a quesiti sempre più specifici sulla mia squadra preferita (ehm) fino ad arrivare a: "Nominami un calciatore italiano" al che io l'ho guardato preoccupata e mi sono spremuta le meningi.

In realtà avrei potuto dire qualunque cosa, proprio perchè per l'appunto la veridicità di quello che viene detto non ha importanza. Mi sarei potuta inventare un certo Mario Parodi che gioca nella Sampdoria e sarebbe andata benissimo.
Invece ho cercato disperatamente di ricordare il nome di qualcuno, senza riuscirci. In realtà conosco il nome di parecchi giocatori, ma quando sono sotto pressione nella mia mente si crea il vuoto.

- E allora, questo giocatore italiano?
- Ehm...
- Dai su, uno qualunque!
- ....
- ....
- ....
- ....
- Ehm..boh... Maradona?

Lui ha sgranato gli occhi ed è passato ad un'altra domanda.
Solo una volta a casa ho scoperto che Maradona non è italiano :-)

Le domande dell'orale comunque, sono veramente interessanti, e sarei curiosa di conoscere chi le ha ideate.
Io le suddivido in varie categorie.
Normali, ovvero domande a cui prima o poi tutti nella vita dobbiamo rispondere, tipo:
- Di cosa ti occupi? Studi o lavori?
- Come mai stai sostenendo l'IELTS?
- Da dove vieni?

Eccentriche, ovvero domande che difficilmente qualcuno mi rivolgerà mai nella vita reale, ma che tutto sommato non sono poi così folli o lo sono solo limitatamente, tipo:
- Perchè la gente compra dei souvenir?
- Quali sono i problemi degli adolescenti, nel tuo paese?
- Credi che i viaggi in treno siano comodi?
- Credi che i governi possano influenzare il tipo di sport praticato dalle persone?
- Chi, a tuo parere, dovrebbe avere il diritto di giudicare come un edificio si debba presentare esternamente, dal punto di vista estetico?

Poi ci sono le domande della categoria "In che senso?" ovvero quelle a cui, dovendo rispondere, non riesco a trattenermi dal fare mille distinzioni, tipo:
- L'arte del tuo paese è simile a quella estera? 
Risposta: dipende dal periodo, dipende da cosa si intende per "estera", certo se parliamo dell'Isola di Pasqua no, non c'è niente in comune a meno che bla bla bla, ma poi il Rinascimento, l'arte europea, bla bla bla.

Una sottocategoria di "In che senso?" è composta dalle domande "Ehm... cosa?" ovvero quesiti che forse hanno un senso in altri contesti, ma che non si possono applicare alla situazione italiana, almeno nella zona che mi è nota, tipo:
- Nel tuo paese, tra le persone che vivono in città e quelle che abitano in campagna c'è un senso di rivalità o di cooperazione?

Infine c'è l'ultima categoria, quella della "Follia senza speranza di recupero", che comprende domande che mi farebbero spalancare la bocca, e la cui sola risposta sensata sarebbe: "Lei sta scherzando, spero".
Un esempio è la seguente:
- Cosa faresti se il livello degli oceani si alzasse e sommergesse la tua città natale?
Ovviamente vale sempre lo stesso discorso, quindi inventare, inventare, inventare. E a domande folli, dare risposte folli. Ad esempio a quest'ultima assurda domanda potrei rispondere, con un sorriso e la massima nonchalance:
- Oh, non c'è problema. Tengo sempre con me una salamandra gonfiabile gigante, proprio per poterci salire sopra caso mai il livello degli oceani salisse...

Ah, per chi se lo stesse chiedendo: sì, tutte queste domande provengono da elenchi di quesiti davvero posti durante l'esame. 

lunedì 16 giugno 2014

Di street food e cibi del cuore

Questo mese, leggendo che il tema dell'MT Challenge era la piadina ma più in generale lo street food, il mio cuore ha fatto un balzo.

Questa volta niente falafel, niente hummus: almeno per questo mese mi è stato subito chiaro che la mia ricetta avrebbe incluso sapori per me noti e familiari.
Non sono sicura sul perchè di questa scelta, ma sicuramente è legata al fatto che, almeno in Liguria, tra gli street food ci sono alcuni tra i cibi più noti e amati della regione.
Parlare di street food è parlare dei profumi e dei sapori che impregnano le strade, è parlare di un cibo che è patrimonio di tutti, senza distinzione, è parlare di qualcosa che è strettamente legato all'anima, allo spirito di un posto.

Se chiudo gli occhi e penso ai profumi della mia città, nella mia mente affiora l'odore umido di ombra e di ardesia che sale dal selciato dei vicoli, e che a tratti si accavalla con l'odore intenso del pesce fresco, il sentore della trippa, l'aroma di pasta di mandorle delle pasticcerie.
Su tutto, però, prevalgono due profumi: quello untuoso e fragrante della focaccia appena sfornata e l'aroma della farinata.
E' tra questi due profumi che si estendono, per me, le parole "street food", e visto che fare la piadina con la focaccia è una cosa che non si può sentire, la mia ricetta per la sfida sarebbe stata con la farinata, senza nessun dubbio. Farinata e una salsa saporita.

Piadina con farinata e salsa di cipolla e peperone

Per la piadina
500 g di farina 00
125 g di acqua
125 g di latte parzialmente scremato
100 g di strutto (per me 80 g di olio extravergine di oliva)
15 g di lievito per torte salate
10 g di sale fine
un pizzico di bicarbonato

Per la farinata
farina di ceci ( 1/4 rispetto alla quantità di acqua)
acqua
sale

Per la salsa
Una cipolla rossa
un piccolo peperone rosso
50 g di noci
3 cucchiai di aceto balsamico
un rametto di timo
olio
sale

Come da regolamento, per la ricetta della piadina ho seguito fedelmente le indicazioni Tiziana. Qui ovviamente lo strutto non c'è, e l'ho quindi sostituito con l'olio evo.
Per la farinata, ho messo la farina setacciata in una ciotola (200 g), e ho quindi incorporato lentamente 800 g di acqua, mescolando a lungo prima con una frusta e poi con un cucchiaio, finchè tutti i grumi non si sono dissolti e la pastella è diventata omogenea. Ho quindi lasciato la ciotola a riposare per sei ore, dando una mescolata ogni tanto.

Nel frattempo ho abbrustolito sul fornello il peperone, l'ho pelato e l'ho messo da parte. Ho affettato sottilmente la cipolla e l'ho cotta in padella con un filo d'olio, il rametto di timo, un pizzico di sale e un po' d'acqua. Al termine della cottura ho aggiunto l'aceto balsamico. Ho quindi messo il peperone e la cipolla nel mixer, aggiungendo le noci e un filo d'olio. Ho frullato il tutto e ho regolato il sale. 



Ho creato le piadine secondo le indicazioni di Tiziana. 


Nel frattempo ho acceso il forno a 250°C e ho oliato abbondantemente una teglia, versandovi quindi sopra la pastella. Con l'aiuto di una forchetta ho quindi miscelato la pastella con l'olio sottostante, fino ad avere la superficie piena di bollicine di olio. Quando il forno ha aggiunto la temperatura, ho acceso il grill e ho infornato la farinata nel ripiano più alto.
Dopo circa 15' l'ho sfornata. Purtroppo il mio forno pende in avanti, quindi non ho ottenuto uno spessore uniforme, ma il risultato complessivo è stato comunque abbastanza sottile.




Ho quindi farcito le piadine con la farinata e abbondante salsa. 


Con questa ricetta partecipo all'MT Challenge di Giugno.

martedì 27 maggio 2014

Babà obesi ai profumi d'oriente

Questo mese, complici una serie di cose, mi sono ritrovata a dover preparare la ricetta per l'MT Challenge di Maggio negli ultimi giorni utili prima del termine della competizione.
Quando ho visto che l'argomento della sfida era il babà, ho avuto una duplice reazione: da una parte un'ansia leggera, dall'altra una forte curiosità.
L'ansia è dovuta al fatto che la mia esperienza del sud Italia è limitata a tre giorni sulla Costiera Amalfitana. Questa è una cosa che mi crea sempre un certo imbarazzo, specie quando gli amici americani o britannici buttano lì un'osservazione tipo questa:
- Ma che bella la valle dei templi di Agrigento! la Sicilia ci ha incantati! ma dicci, tu che sei Italiana, qual è la parte più bella dell'isola?
Al che posso solo arrossire e confessare con un po' di vergogna che conosco più l'Australia del meridione del mio paese. E' increscioso, lo so.

Dal punto di vista culinario devo ammettere che le cose sono anche peggiori, in quanto una buona parte delle specialità meridionali mi sono totalmente ignote, a livello "non ne ho mai sentito parlare".
I babà li conoscevo di nome, e credo di averli intravisti in qualche pasticceria, ma li ho sempre associati al rum, e vista la mia idiosincrasia per l'alcool me ne sono sempre tenuta lontana.

Però, come dicevo prima, oltre all'ansia c'era anche la curiosità. Questo mese, grazie alla ricetta di Antonietta, mi sarei potuta cimentare in una preparazione che non ho mai provato e che è uno dei cavalli di battaglia di una tradizione gastronomica che voglio assolutamente scoprire e assaporare.

Ho passato quindi giorni a pensare a come sarebbero stati i miei babà. Mi sono persa tra le creme, tuffata in una profusione di sciroppi e ho passato lunghe ore pensando agli abbinamenti. Alla fine stringevo in mano un foglietto con due diverse opzioni. Avrei desiderato proporle entrambe, purtroppo alla fine non ci sono riuscita. Spero di aver scelto la ricetta migliore... :)

Ovviamente, come sempre quando tento di cucinare un piatto italiano qui, l'intoppo era dietro l'angolo, e proprio dove non me lo aspettavo. Avevo studiato con attenzione gli ingredienti, cercando di armonizzare il babà con i profumi e i sapori della pasticceria locale. Avevo scartato subito l'alcool, in parte perchè, una volta aggiunto, i dolci avrebbero perso per me ogni attrattiva, in parte perchè qui comprare gli alcoolici è una faccenda complessa, che inizia con una (costosa) licenza annuale rilasciata dal governo (che io non possiedo) e che termina in negozi un po' discosti dalle vie principali, con i vetri oscurati e gli scaffali carichi di costosissime bottiglie.
Una volta stabilita la ricetta e comprati gli ingredienti ero sicura di essere a cavallo. Mi mancavano solo gli stampini monoporzione.
Ho setacciato i negozi, ho frugato sugli scaffali dei supermercati. Niente. O meglio, niente che avesse una forma vagamente somigliante e un prezzo abbordabile. Alla fine ho dovuto ripiegare sugli stampini rotondi monoporzione di alluminio della Cuki, portati dall'Italia.
I miei babà hanno compiuto l'ultima lievitazione lì dentro, gonfiandosi a dismisura e saturando ogni più piccolo spazio, per poi fuoriuscire baldanzosi e arroganti dal contenitore, come per mostrare entusiasticamente la propria mole.
Ho creato i babà obesi.

Un'ultima considerazione prima di inserire la ricetta.
Mi è piaciuto fare questi dolci. A volte mi succede di sentirmi in assoluta sintonia con un impasto, lo sento leggero sulle mie dita, carico di profumi, setoso, e non posso fare a meno di pensare che verrà bene. Questo è stato il caso dei babà, ma non è tutto qui.
Da quando sono in questo paese, l'autenticità del cibo che preparo ha assunto per me un'importanza enorme. Con autenticità non intendo "la ricetta originale", ma un piatto che ha radici nel passato, che si è evoluto passando attraverso innumerevoli mani, nel corso dei secoli. Una ricetta che solo a leggerla capisci che ha una storia.
I babà li ho sentiti autentici, veri. Durante la lievitazione e la cottura hanno saturato il mio appartamento di un profumo "di casa", di cose fatte col cuore e tramandate nelle generazioni, e l'aver scoperto questo impasto mi ha dato una gioia immensa.

Babà obesi allo sciroppo di fiori d'arancio, mahalabyia e halva

Per i babà
300 g di farina bio tipo 0 Manitoba
3 uova categoria a grandi
100 g di burro
100 g di latte
25 g di zucchero
10 g di lievito di birra
1/2 cucchiaino di sale fino
50 g di scorza d'arancio candita (aggiunta personale)

Per la bagna
300 ml di acqua
500g di zucchero semolato finissimo (caster sugar)
4 cucchiai di succo d'arancio
4 cucchiai di acqua di fiori d'arancio

Per il mahalabyia
350 ml di latte
1 cucchiaio di maizena
2 cucchiai di caster sugar
20 gr di farina di mandorle
qualche goccia di acqua di fiori d'arancio

Per l'halva
200 g di miele
100 g di tahine

Per la lucidatura
4 cucchiai di gelatina di arance

Come da regolamento per l'impasto del babà ho seguito la ricetta di Antonietta. Non sono riuscita a reperire la Manitoba, quindi ho ripiegato su un'altra farina di forza. Ho inoltre aggiunto 50 g di scorza d'arancia candita a cubetti.
Mentre i babà eseguivano le loro lievitazioni, ho preparato l'halva.
Col nome "halva" si intendono due diverse preparazioni, entrambe piuttosto comuni nel Medio Oriente: una è una specie di polentina, solitamente a base di semolino, mentre l'altra è un dolce estremamente friabile a base di miele, con qualcosa in comune col torrone. L'halva presente nei miei babà è il secondo.
Per la realizzazione ho fatto cuocere il miele (ho usato quello di acacia) a fiamma bassa, mescolando saltuariamente, fino a circa 115°C, ovvero, per me che ho lasciato il termometro da zucchero in Italia, fino allo stadio in cui, facendo cadere una goccia in acqua fredda, questa al tatto si rivela una pallina morbidissima.
A questo punto ho tolto il miele dal fuoco e l'ho lasciato raffreddare per un paio di minuti. Nel frattempo ho scaldato il tahine a occhio (per chi ha il termometro fino a 50°C). Ho quindi unito i due composti e mescolato bene, rovesciando poi il tutto su un foglio di carta da forno.



Quando l'impasto è diventato sufficientemente freddo da poter essere preso in mano, l'ho trasferito in frigo per qualche ora, ben avvolto per evitare che diventasse umido.
Una volta ben rassodato e cristallizzato l'ho tagliato a pezzettini.

Nel frattempo i miei babà obesi avevano terminato le loro lievitazioni, quindi li ho cotti seguendo le indicazioni di Antonietta, li ho sfornati e li ho fatti raffreddare.



Ho quindi preparato lo sciroppo per la bagna.
Ho portato l'acqua a bollore, quindi ho unito lo zucchero e il succo d'arancio. Quando lo sciroppo ha iniziato ad avere una certa consistenza ho spento il fornello, ho aggiunto l'acqua di fiori d'arancio e ho bagnato i babà fino a saturazione.



Poichè mi era avanzato dello sciroppo, ho proseguito per qualche minuto la cottura, fino ad ottenere un fondente da cui ho ritagliato stelline decorative.


Infine ho preparato il mahalabyia, una crema di origine egiziana ma diffusa anche in altre zone del Medio Oriente.
Ho miscelato la maizena e lo zucchero, aggiungendo il latte caldo a filo e quindi l'acqua di fiori d'arancio e mescolando con una frusta per evitare i grumi. Ho quindi spostato la preparazione sul fornello più piccolo, tenendo la fiamma al minimo, e ho continuato a mescolare con un cucchiaio di legno. Al primo accenno di bollore ho aggiunto la farina di mandorle, sempre continuando a mescolare. Dopo circa 15 minuti il composto ha iniziato a velare il cucchiaio e in pochi minuti è diventato cremoso.

Ho lucidato i babà con la gelatina, quindi ho completato con il mahalabyia e i pezzetti di halva.


Con questa ricetta partecipo all'MT Challenge di Maggio.